Caporetto, 24 ottobre 1917

di Giuliano Casagrande

“Wir zogen nach Friaul, Do hatt’ wir allesamt voll Maul!”
Trad. "Venimmo dal Friuli, lą ci siamo riempiti la bocca in abbondanza!"
Canzone del 1540 di Georg Foster, poeta lanzichenecco, ripresa nel titolo del bestseller del 1929 di Helmut Schittenhelm, che descrive da testimone la battaglia di Caporetto.

Intenso e prolungato bombardamento di preparazione, compatto assalto frontale, poco o nullo “ammaestramento tattico”. Questa la strategia che, con rimodulazioni minime, aveva tentato di aprire la strada verso Lubiana e Vienna agli italiani. Il fronte, serrato dalle Alpi, dagli altipiani e dal Carso, non riservava obiettivi decisivi, ma sempre e soltanto nuove vette e crinali oltre quelli che si erano già conquistati con grandi perdite. La logica dei comandi, stretta su questo terreno, non vide altra soluzione che riversare più risorse, proiettili e uomini nell’inghiottitoio carsico, nella sola speranza che fossero proporzionali a quelli nemici. L’illogicità e l’inutilità che avvertiamo in questo sforzo non tengono conto che la disfatta di Caporetto nacque, paradossalmente, all’ombra del successo, quando il 12 settembre 1917 si concludeva l’undicesima battaglia dell’Isonzo. Infatti, il nuovo imperatore austriaco Carlo I, succeduto al defunto Francesco Giuseppe, osservò presso l’alleato tedesco che una dodicesima spallata italiana avrebbe travolto il fronte meridionale. Quella strategia elementare, terribile e inumana come in ogni altra guerra, era infine riuscita a stremare l’Impero austro-ungarico. Lo stato maggiore tedesco, contrario a chiudere la partita in Italia per ragioni prima diplomatiche, poi strategiche e d’opportunità, decise d’intervenire soltanto per il pericolo di veder crollare l’alleato. La nascita del piano d’attacco, la verifica degli obiettivi e la dislocazione di uomini e materiali da parte degli austro-tedeschi si concretizzarono tra il 29 agosto e il 20 ottobre 1917.

La battaglia, cominciata il 24 ottobre, vide Cadorna dare l’ordine di ripiegare al Tagliamento già tre giorni dopo. Questo evento ha lasciato una ferita profonda nell’immaginario del nostro paese, legando per antonomasia Caporetto a una sconfitta senza appelli, priva di aggettivi. La rotta militare trascinò con sé i profughi fuggiti dal Friuli e dalla sinistra Piave, ma soprattutto la gran parte degli amministratori e della classe dirigente lasciando ai parroci la custodia delle comunità: la “Caporetto interna”. La durezza del trauma aveva bisogno di una giustificazione che ognuno ritrovò di volta in volta nella viltà, nel tradimento dei soldati o nell’inettitudine dei comandi. Da subito le interpretazioni dell’accaduto si avvicendarono, perfino sostituendo il verso della Canzone del Piave “si parlò di tradimento” con il più vago “fosco evento”. La volontà di leggere questa sconfitta al di fuori di ragioni prettamente belliche fece sì che Caporetto si caricasse di un valore molto più forte di altri nomi quali Gorizia o Carso. Solo il Piave e Vittorio Veneto, per una volontà precisa, ebbero un valore di uguale entità: punto fermo nella riscossa per la cancellazione dell’onta subita. Ma è proprio questa narrazione e contrapposizione di simboli a creare delle incoerenze. I soldati sopravvissuti a Caporetto furono i medesimi che lottarono strenuamente in una serie di scontri minori a Cividale, Udine e via via tentarono di fermare gli austro-tedeschi sul Tagliamento. Fallendo, sempre loro ripiegavano e arrestavano l’avanzata al Piave, garantiti, ma non affiancati, dai rinforzi anglo-francesi. Inoltre nella rotta, tra i soldati, non si trova la “rivolta”, ma un generico quanto liberatorio “tutti a casa!”, privo di ogni progettualità rivoluzionaria. Chi si ritira dal Friuli non ha nulla a che fare con i russi che solo due settimane dopo Caporetto prenderanno il Palazzo d’Inverno a Pietrogrado. Il fante italiano, con “rassegnazione”, combatté anche quella battaglia, al suo posto. Lo provano le migliaia di memorie di ufficiali italiani, riportate alla luce dallo storico Paolo Gaspari. Infatti prestando attenzione ai fatti militari il quadro diventa più chiaro.

Il Regio Esercito si ritrovò ad affrontare la prima battaglia difensiva sull’Isonzo, la seconda di tutta la guerra sul fronte italiano. Dai racconti emerge come si fosse impreparati a tale evento. Le nostre posizioni erano incerte, tutte proiettate in avanti in vista dell’offensiva da portare nella primavera del’18. Finora mai costretti a difendersi, i comandi non si preoccuparono di interrare i cavi telefonici, così che i collegamenti furono troncati dal bombardamento avversario. Secondariamente le strategie impiegate dal nostro esercito erano superate rispetto a quelle adottate dai tedeschi in termini di schieramento della fanteria, utilizzo delle armi automatiche e dell’artiglieria. Come se non bastasse i reparti italiani al fronte erano in larga parte sottodimensionati per via di un gran numero di licenze concesse 16 giorni prima dell’offensiva nemica: non si credeva che potesse essere lanciato un attacco in grande stile a ridosso dell’inverno. I tedeschi, poi, impiegarono una tattica sconosciuta agli italiani che vedeva piccoli nuclei superare la prima linea e portarsi alle spalle del nemico. Col grado di tenente, fu presente tra questi anche Erwin Rommel, famoso per il suo ruolo durante la seconda guerra mondiale. Proprio questa tecnica, pur dissanguando i reparti germanici, fu la stessa che sottrasse circa 60 km di terreno ad inglesi e francesi sul fronte occidentale.

Caporetto si tramutò da sconfitta in rotta a causa di vizi strutturali che solo oggi possono essere letti con chiarezza e che i contemporanei non riconobbero fino all’ultimo. La “tragedia necessaria” sfiorata nel ’16 e avvenuta nel ’17 mise in moto un cambiamento importante nel modo di pensare l’esercito più che di condurre la guerra. Infatti, come si è detto, la preparazione d’artiglieria continuerà a precedere l’avanzata dei fanti, ma sono altre le corde che la gestione Diaz, subentrato a Cadorna, andò a toccare. Maggiore autonomia della catena di comando, “Servizio P” di propaganda per la motivazione della truppa insieme alla grande diffusione dei giornali di trincea, momento di distrazione e sfogo del fante. Ma, soprattutto, mutò il teatro della guerra. Dopo aver combattuto per vette e cime anonime, ora l’esercito arginava un’invasione al Piave. Nei soldati, se non cambiarono l’abnegazione e la tenacia, mutò lo spirito, che questa volta li vide combattere per chi stava alle loro spalle o per riabbracciare chi era rimasto oltre il fiume. Scagionati dal tradimento, i fanti italiani rimangono comunque intrappolati nelle trincee di Caporetto. La loro “rassegnazione” alla lotta sta lì “ad assicurarci che si può far subire all’uomo qualsiasi cosa, ogni più dura umiliazione, al di là d’ogni sua partecipazione o coscienza; e ancora ch’egli sarà buono, paziente, rassegnato: basta che l’organizzazione funzioni, che ‘errori tecnici’ non vengano ad incepparne il regolare andamento [Mario Isnenghi]”.


Gallery

Cannone da 149 A e altro materiale bellico abbandonato dagli italiani durante la ritirata. Ottobre – novembre 1917 [AF MSIGR 59/113]
Autoblindomitragliatrice e autocannone da 102 abbandonati dagli italiani durante la ritirata. Ottobre – novembre 1917 [AF MSIGR 113/166]

Testimonianze

Cosa accadde a Caporetto? Tradimento o catastrofe militare?

Le analisi, le letture militari, politiche o sociali si sono alternate cercando di comprendere il come e il perché di quella immane tragedia. Già allora, nel dicembre del 1917, il nostro parlamento discuteva sulle ragioni della rotta. Dai verbali della Camera emergono nitide le ipotesi e i giudizi che avrebbero dominato il dibattito lungo tutto il Novecento. Si ritrova in quei discorsi il sincero interesse per la salvezza dello stato, nell’impossibilità di ricomporre le distanze tra le fazioni politiche. A quel tempo però recriminazioni e accuse pesavano molto di più: il nemico non era ancora stato sconfitto, era avanzato di cento chilometri e il Piave, non ancora sacro alla Patria, veniva considerato “l’orlo dell’abisso”.

La domanda

“Caporetto! L’immensurabile disastro militare o l’incredibile rotta morale? La tremenda disfatta strategica e tattica, o l’abietto crollo, come lo hanno chiamato i giornali tedeschi, […] dinanzi al mondo ed alla storia? La sventura delle armi o l’infamia dei nostri armati? Un esercito travolto dopo trenta mesi di pugne gloriose, o l’onore del popolo italiano trascinato nell’ignominia della viltà, del tradimento? […] Ecco quanto il popolo d’Italia domanda, pretende di conoscere”.
On. Pietravalle. Legislatura XXIV – 1° sessione – discussioni – tornata del 21 dicembre 1917 pp. 15335

La dittatura del comando militare

Il Comando Supremo ha esercitato una innegabile dittatura entro i limiti dell’azione militare. […] Di fatto si era costituito in Italia uno Stato nello Stato, un Governo sopra il Governo, ad una capitale politica si era sovrapposta una capitale militare: Udine. […] L’opera della Camera si riduceva a riconfermare o negare la fiducia al Ministero. Troppo poco per tempi così grossi, così irti di problemi, di difficoltà e di pericoli di ogni genere. Questo regime della completa delegazione dei poteri del Parlamento al Governo e – per la parte militare – dal Governo al Comando Supremo ha fatto la sua esperienza. In 30 mesi di prova ha dimostrato i suoi vantaggi e i suoi danni, Non vi è nessuno che oggi osi dichiararsene soddisfatto. La delegazione integrale dei poteri ha prodotto il rilassamento dell’azione, l’addormentamento generale. Il risveglio è avvenuto a Caporetto ed è stato dolorosissimo e poteva riuscire fatale”.
Relazione dell’On. Bevioni citata nell’intervento dell’On. Sanarelli. Legislatura XXIV – 1° sessione – Discussioni – Tornata del 18 dicembre 1917 pp. 15193-15194

I socialisti capro espiatorio

"Onorevoli colleghi, noi socialisti riprendiamo un discorso che in verità non credevamo di dover riprendere. Sono i fatti che ci obbligano a fare ciò, che ci suggeriscono una specie di Heri dicebamus. Noi dicevamo: Se i fatti premeranno più fortemente, noi saremo i più fortemente premuti. […] Onorevoli colleghi, la notizia della disfatta corse, seguita immediatamente dall’accusa contro di noi. […] Si ignorava ancora tutto quello che si sa adesso, si ignorava ancora e si giudicava e si condannava. La colpa è dei socialisti! L’anima collettiva ha un fondo di infantilità che è la fortuna di tutte le bugie e di tutti i bugiardi. Si disse: complotto per Caporetto, come si era detto: Tradimento per il Trentino [Strafexpedition N.d.r.]. Due bugie, e i bugiardi erano coloro che si rifiutavano di credere, coloro che si facevano complici della bugia! Caporetto, Trentino, Ortigara sono le tre croci su cui si è crocifissa la verità e donde bisogna sconficcarla con coraggio".
On. Bentini Legislatura XXIV – 1° sessione – discussioni – Tornata del 19 dicembre 1917 pp. 15254 e 15257

Cadorna unico responsabile?

“Gravi, senza dubbio, furono gli errori del Comando Supremo o, se si voglia personificare quest’organo, di Cadorna; ma io che non l’ho mai conosciuto, che sono a suo riguardo «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio» (rumori da sinistra), ho sentito con un certo stupore dai suoi critici e perfino dai suoi laudatori di ieri demolire completamente nell’ora dell’insuccesso la figura di quel Generalissimo, che pure per due anni e mezzo aveva portato a grande altezza il nome d’Italia, e sulla fronte Giulia e sul Carso aveva fatto sventolare vittorioso il vessillo della Patria nostra. (Vive approvazioni). Negarne i meriti significherebbe non poterne valutare adeguatamente le colpe: e tutto ciò sarebbe assurdo. Come sarebbe ingiusto dubitare del valore e delle virtù dell’esercito italiano sol perché in un momento di follia, facendoci perdere le terre sanguinosamente redente e facendo perfino invadere due nostre provincie, ha inferto un terribile colpo al nostro Paese. Caporetto non può cancellare le sublimi pagine di eroismo scritte dai nostri soldati lungo il ceruleo Isonzo o sul verde Carso o sulle nevose vette delle montagne: quegli atti di abnegazione e di sacrificio, che per sì lungo tempo ci consentirono di rintuzzare l’orgoglio del secolare nemico quando volle misurarsi da solo con noi, sono acquisiti alla storia e rifulgeranno nei secoli di purissima luce senza che alcun contrario evento possa offuscarli o velarli. (Approvazioni vivissime)".
On. Abisso Legislatura XXIV – 1° sessione – discussioni – Tornata del 19 dicembre 1917 pp.15266-15267

Sciopero militare

“Io affermo ora, […] che un nesso logico esiste fra la dimostrazione delle donne a Milano, nel maggio scorso, fra i fatti di Torino e i fatti di Caporetto: sciopero di Milano, sciopero di Torino, sciopero militare a Caporetto. […] Accuso gli italiani di essersi imbevuti delle vuote formule di quella rivoluzione, alla quale in quest’aula inneggiammo da tutte le parti, perché credevamo che avesse potuto assumere la funzione propulsiva che ebbe la rivoluzione francese, la quale non gettò le armi, ma riorganizzò i suoi eserciti per affermare attraverso l’Europa il nuovo diritto del cittadino”.
On. Pirolini Legislatura XXIV- 1°sessione – discussioni – tornata del 20 dicembre 1917 p. 15317

Coefficiente di resistenza

“Della rotta di Caporetto fu parlato a lungo, dal dibattito emerse che le responsabilità di essa si distribuivano equamente fra tutti. Non addurrò in proposito che un argomento che mi fu suggerito da un’espressione del collega Albertelli in una seduta del gruppo cui appartengo. L’Albertelli, ingegnere, ci diceva che nell’ingegneria, nella meccanica, si conosce una legge che va col nome di coefficiente di resistenza. Esiste un punto oltrepassando il quale una vòlta, un pilastro, un edifizio può crollare. Che dunque non si oltrepassa senza pericolo. La ragione vera, profonda della rotta di Caporetto, per la parte che riguarda la truppa, è che nel misurare la sua solidità dopo quasi tre anni di sforzo non si è tenuto conto del coefficiente di resistenza.
On. Morgari Legislatura XXIV – 1° sessione – discussioni – tornata del 21 dicembre 1917 pp. 15362-15363

Tutti uniti

“Anche tra le masse operaie (Rumori vivissimi all’estrema sinistra) si è ormai fatta strada la convinzione della giustizia della guerra, e della necessità della difesa nazionale. […] Del resto, eleviamoci tutti al di sopra di queste recriminazioni sterili e perniciose. Mentre gli austro-germanici sono davanti la Piave non vi può più essere, da Torino a Trapani, che un solo pensiero, quello di difendere la Patria, di cacciare il nemico (Applausi vivissimi a destra ed a sinistra – Rumori all’estrema sinistra)”.
On. Daneo Legislatura XXIV – 1° Sessione – discussioni – tornata del 20 dicembre 1917 p. 15322

Gli interventi sono disponibili al sito http://storia.camera.it/lavori/regno-d-italia/leg-regno-XXIV#nav


Biografia

Luigi Capello

Luigi Capello nacque a Intra il 14 aprile 1859. Allievo dell’Accademia militare nel 1875, sottotenente di fanteria nel 1878, iniziò la sua carriera militare nel 46° reggimento di fanteria. Promosso tenente nel 1881 prestò servizio nel corpo degli Alpini e raggiunse il grado di capitano nel 1885.

Militare anticonformista - non nascondeva la sua opposizione allo spirito di casta del corpo ufficiali, collaborava con Nitti e D’Annunzio e nutriva simpatie per la causa socialista (nota la sua amicizia con Leonida Bissolati) – si attirò ben presto l’antipatia di diversi militari di carriera, tanto da essere trasferito a Cuneo per punizione.  Tuttavia, la sua carriera non fu compromessa e nel 1898 divenne colonnello al comando del 50° fanteria. In questi anni entrò nella massoneria, raggiungendovi posizioni di responsabilità e stringendo rapporti con personalità politiche. Divenuto maggiore generale, partecipò alla campagna di Libia alla testa di una brigata di fanteria dislocata a Derna. Qui diede prova di energia e decisione, distinguendosi per spirito aggressivo, severità e per la sua devozione all’offensiva ad oltranza.

All’indomani dell’intervento italiano nella Grande guerra, Capello comandava la XXV divisione di stanza a Cagliari, assegnata poi alla III armata. Dopo le prime sfortunate offensive sul Carso, il 28 settembre 1915 fu promosso tenente generale, e destinato al comando del VI corpo d’armata che fronteggiava la testa di ponte austro-ungarica di Gorizia. Prese le redini del comando, Capello poté finalmente mettere in pratica le sue teorie lanciando un reggimento dopo l’altro in sanguinosi e sterili attacchi contro Gorizia, le alture del Sabotino e del Podgora, senza riuscire a intaccare minimamente la linea di resistenza nemica. Il prestigio di Capello, tuttavia, non fu scosso da questi insuccessi, poiché il regno d’Italia, in quanto stato aggressore, era costretto per ragioni politiche, strategiche e morali a condurre una guerra offensiva, anche in mancanza dei mezzi bellici in grado di cogliere concreti successi strategici o tattici.  

Il rafforzamento dell’esercito durante la pausa invernale del 1915/1916 permisero a Capello di impostare su nuove basi la conquista della testa di ponte di Gorizia, potendo ora contare su 1176 bocche da fuoco, delle quali 463 di medio-grosso calibro. Con la VI battaglia dell’Isonzo il 9 agosto le truppe di Capello occuparono Gorizia e conquistarono quasi senza perdite il Sabotino, conseguendo il primo netto successo della guerra italiana. La popolarità di Capello crebbe così rapidamente da metterlo in urto con Cadorna. Gli avversari del generalissimo italiano vedevano infatti in Capello un possibile successore, capace di imprimere un nuovo dinamismo offensivo alla guerra italiana e di stabilire rapporti più intensi tra paese, esercito e classe politica.

Cadorna decise così di colpire il potenziale rivale e, poiché non poteva silurarlo all’indomani della vittoria di Gorizia, nel settembre 1916 lo rimosse dal Comando del VI corpo passandolo a quello di assai minor rilievo del XXII corpo d’armata sugli Altopiani. Tuttavia l’esilio dal fronte isontino durò poco, sia per la nomina di Capello a grand’ufficiale dell’Ordine militare di Savoia sia alla luce del fatto che Cadorna, nonostante le differenze politiche e caratteriali, lo considerava il migliore dei suo generali, tanto da richiamarlo sul fronte dell’Isonzo affidandogli nuovamente il comando della zona di Gorizia, nel marzo del 1917.

Nei piani di guerra del 1917, il settore di competenza di Capello assumeva un’importanza decisiva nell’economia della guerra italiana, ciononostante Cadorna, divenuto scettico sull’opportunità dell’offensiva ad oltranza, intendeva spostare il centro di gravità dell’offensiva più a sud, contro l’Hermada, settore della III armata del Duca d’Aosta. Nonostante la superiorità di forze e l’accurata preparazione, l’attacco portò solo alla conquista del monte Kuk. Tuttavia Capello, forte del suo prestigio, ottenne l’autorizzazione a protrarre gli sforzi e, a prezzo di forti perdite, riuscì a occupare anche il Vodice. In questo caso, trattenendo per se le artiglierie destinate alla III armata, Capello decretò l’insuccesso degli attacchi della III armata al monte Hermada. Malgrado la parzialità del successo, Capello fu promosso al comando della II armata.

All’indomani dell’undicesima battaglia dell’Isonzo la II armata di Capello era destinata ad investire l’altipiano della Bainsizza. Ciononostante, egli ottenne di estendere l’attacco alla pericolosa testa di ponte austroungarica di Tolmino, fiducioso nell’eccezionale concentramento di forze: 51 divisioni con 5.200 pezzi d’artiglieria. L’offensiva della 2° armata ottenne un rapido successo sulla Bainsizza, ma fallì verso Tolmino. Capello decise comunque di insistere, lanciando in questo settore tutte le sue riserve. Ignorando gli ordini di Cadorna che prevedevano di bloccare l’offensiva quando questa si faceva troppo “costosa” e malgrado l’aumento vertiginoso delle perdite, egli decise di prolungare la battaglia con una serie di sanguinosi attacchi al San Gabriele. Ne conseguì un doloroso logoramento di truppe già provate, che non riuscirono a espugnare nessuna delle posizioni austriache. Tuttavia, i successi tattici del Kuk, del Vodice e della Bainsizza- pagati a caro prezzo - accrebbero la fama di Capello. In realtà tutto il suo comportamento sul campo era da considerarsi negativo, dall’aperta disobbedienza a Cadorna, alla ripetizione degli attacchi verso Tolmino e il San Gabriele, tutti falliti. Da parte sua Cadorna, non potendo attendersi sostegno dal governo che aveva spesso duramente attaccato, subì la crisi della sua autorità, coprendo la disobbedienza di Capello per salvare il proprio posto.

Con l’undicesima battaglia il rateo delle perdite era salito al terribile record di 160 mila morti, feriti e dispersi in sole due settimane. Malgrado l’ottimismo dei generali e i discreti risultati ottenuti, soprattutto se paragonati a quanto avveniva sul fronte occidentale, il regio esercito era attraversato da una profonda crisi morale e materiale. La mancanza di riserve umane, l’esaurimento delle truppe - sfinite dagli attacchi e dai lunghi turni in trincee poste su posizioni esposte e difficilmente difendibili - la cieca fiducia dei comandanti nell’offensiva ad oltranza e l’impreparazione a combattere una battaglia difensiva, rendevano l’esercito italiano una facile preda per un attacco concentrato austro-tedesco, nonostante la superiorità numerica e materiale.

Si arrivò così alla notte di Caporetto e alla terribile disfatta delle armi italiane, nonché alla caduta di Capello. All’indomani del 24 ottobre 1917 egli ignorò completamente gli ordini di Cadorna di porsi sulla difensiva (ordini spesso aleatori e dei quali non ne veniva controllata l’effettiva esecuzione) mantenendo le sue truppe in posizione d’attacco, non predispose riserve di settore efficienti e sottovalutò fino all’ultimo le notizie sull’attacco in preparazione. Tale passività può essere spiegata dalla volontà di Capello a non rinunciare al suo ruolo di sostenitore dell’offensiva ad oltranza.  Per di più una grave forme di nefrite ne pregiudicò la possibilità di tenere il comando con la continuità necessaria. Ritenuto tra i principali responsabili della disfatta, seguì la sorte di Cadorna, terminando di fatto la sua carriera militare.

Nel dopoguerra fu tra i primi ad aderire al movimento fascista e nel 1922 prese parte alla Marcia su Roma. Nel febbraio 1923 si dimise dal PNF a seguito del voto del Gran Consiglio che dichiarava incompatibile l'adesione al Fascismo e alla Massoneria. Emarginato dal regime - del quale forse non volle accettare la deriva reazionaria – e completamente rimosso dalle celebrazione che il fascismo tributò ai generali della Grande guerra (nello 1924 Cadorna e Diaz furono nominati marescialli d’Italia), Capello prese parte all'organizzazione del fallito attentato contro Mussolini (1925), organizzato dal deputato socialista Tito Zaniboni. Condannato a trent'anni di carcere nel 1927, ne scontò solo dieci, venendo liberato nel 1936. Scarcerato, morì dimenticato a Roma nel 1941.

Comandante duro ed energico verso i suoi ufficiali, ma capace di suscitare entusiasmo in quanti lo avvicinavano, Capello non trascurava l’addestramento delle truppe e la loro preparazione morale, ma le sottoponeva senza esitazione a sanguinosi sforzi, che non potevano non avere gravi conseguenze. Pur trattandosi di un logoramento comune a tutto le unità del Regio esercito, esso fu ancora più sentito nella II° armata poiché su di essa era ricaduto il peso maggiore delle battaglie del 1917. Capello era inoltre un ufficiale sempre interessato a tutte quelle innovazioni tecniche che potessero portare al successo delle operazioni, favorendo l’introduzione della bombarda e la creazione dei reparti di Arditi. Tuttavia sul piano strategico egli non abbandonò mai le sue convinzioni offensiviste né si interessò di tattiche alternative agli sterili e sanguinosi attacchi frontali. Per quanto riguarda i rapporti con Cadorna, essi si mantennero sufficientemente buoni: tra i due uomini c’era senza dubbio un rapporto di stima, ma non amicizia né comprensione, con il risultato che Cadorna – che non fu mai in grado di controllare i suoi subordinati - lasciò troppa libertà d’azione all’ambizioso e autonomo comandante della II armata. Una mancanza di coordinamento che fu fatale ad entrambi e portò al disastro di Caporetto.


Link

https://www.turismofvg.it/la-ritirata-di-caporetto-24-ottobre-1917
https://www.esercito.difesa.it/en/history/pagine/o12-battaglia-caporetto.aspx
https://www.lastampa.it/cultura/2017/10/25/news/la-caporetto-inedita-una-sconfitta-che-salvo-l-italia-e-l-intesa-1.34407839
https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/DEP/numeri/n1/2-La_condizione_delle_donne_profughe_e_dei_bambini_dopo_Caporetto.pdf


Letture

Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto, Padova, Marsilio, 1967
Nicola Labanca et all, Caporetto: Esercito, Stato e Società, Giunti, 2014
Nicola Labanca, Caporetto: Storia e memoria di una disfatta, Il Mulino, 2017
Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Laterza, 2006
Alessandro Barbero, Caporetto, Laterza, 2017