La Battaglia di Vittorio Veneto

di Francesco Frizzera

“La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni austroungariche, è finita. […] L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
Armando Diaz, Comando Supremo, 4 Novembre 1918, ore 12

Il Bollettino della vittoria, emanato da Armando Diaz, Capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano il 4 novembre 1918, è parte integrante del mito della Battaglia di Vittorio Veneto. L’importanza dell’ultimo episodio di guerra combattuta sul fronte italo-austriaco infatti non si limita agli eventi militari, ma si interseca in maniera inscindibile con la narrazione della guerra e, anche a causa di questa narrazione, è entrato nell’immaginario collettivo della guerra italiana.

Il Bollettino di Diaz descrive con linguaggio altisonante una vittoria militare su vasta scala, contro un nemico più forte per mezzi e tradizione. L’accettazione acritica di questa prospettiva diverrà per lungo tempo una costante della narrazione della guerra italiana, sia sui media che in storiografia. In realtà, il testo nasconde numerose imprecisioni ed omette particolari rilevanti. Le divisioni austriache che fronteggiavano l’esercito italiano erano infatti 58 (e non 73), in parte incomplete negli organici. Inoltre, le condizioni alimentari e fisiche dei soldati austro-ungarici rasentavano il limite della sopravvivenza. Se non bastasse, il fronte interno dell’Austria-Ungheria era squassato da fortissime tensioni nazionali, che incidevano sulla tenuta morale delle truppe di stanza nelle retrovie.
La storiografia sul tema non aiuta certo a fare chiarezza sull’evento. Alcuni analisti pongono l'accento sul simultaneo collasso della monarchia asburgica e descrivono questa battaglia come una vittoria non sorprendente; inoltre, la rottura del fronte balcanico nel settembre-ottobre 1918 avrebbe reso trascurabile il contributo italiano al crollo. Altri autori addirittura negano lo status di battaglia dell’avanzata di Vittorio Veneto. In quest'ottica, l'Esercito italiano avrebbe semplicemente sfruttato una ritirata spontanea. All’opposto, la storiografia italiana fino a tempi recenti ha valutato questa battaglia come il punto di svolta della guerra italiana: la vittoria di Vittorio Veneto controbilancia la sconfitta di Caporetto e ripristina l'onore dell'esercito. Molte di queste valutazioni rappresentano solo un punto di vista nazionale. Le dinamiche di battaglia sono infatti molto più complesse e non si possono comprendere attraverso spiegazioni mono-causali.

A partire dal settembre del 1918, le condizioni politiche e alimentari della monarchia asburgica peggiorarono, anche se questo apparentemente non ebbe un impatto negativo sugli eserciti austro-ungarici dispiegati lungo il fronte sud-occidentale. Il governo italiano e Ferdinand Foch invitarono ripetutamente Armando Diaz ad organizzare un'offensiva autunnale tra il Monte Pasubio e Asiago per sfruttare le difficoltà interne dell'Austria. Secondo il Capo di Stato Maggiore italiano, un attacco del genere non avrebbe portato cambiamenti strategici, in quanto l'esercito italiano non aveva abbastanza divisioni per eseguire un'offensiva in area montana. Infatti, il Regio esercito poteva contare su cinquantasette divisioni (tra cui tre inglesi, due francesi e una cecoslovacca) e 8.900 pezzi d'artiglieria, contro cinquantotto divisioni austro-ungariche e 7.000 pezzi di artiglieria. I dubbi di Diaz erano poi legati a valutazioni generali: tra gli Stati maggiori alleati erano in pochi a pensare che una vittoria potesse essere raggiunta prima del 1919 e negli ambienti del Comando Supremo italiano si riteneva che un’offensiva avrebbe potuto al massimo portare alla riconquista delle province perdute nel 1917.
Opinioni come quella del colonnello Tullio Marchetti, capo dell’ufficio informazioni della I° Armata, secondo cui l’esercito austro ungarico era ormai “come un budino che ha la crosta di mandorle toste ed è ripieno di crema”, erano isolate negli ambienti militari italiani. Queste impressioni erano invece molto chiare ai generali austro-ungarici: Ernst Horsetzky, comandante del XXVI corpo d’Armata che presidiava il settore strategico del Monte Grappa, al pari di suoi colleghi aveva fiducia nella capacità di resistenza delle truppe di prima linea, ma riteneva necessario intavolare trattative di pace non appena fosse stato rintuzzato l’imminente attacco italiano, dato che riteneva impossibile una resistenza ad oltranza.
Su pressione degli ambienti alleati e delle notizie di progressivo disfacimento del fronte interno austriaco, Diaz progettò conseguentemente in settembre-ottobre un'offensiva lungo il fiume Piave, dove era molto più vantaggioso piazzare le truppe. Tra Vidor e Grave di Papadopoli, infatti, era possibile stanziare venti divisioni italiane e 4.130 pezzi di artiglieria contro dodici divisioni austroungariche e 1.000 pezzi di artiglieria. Inoltre, un attacco riuscito in questa zona avrebbe permesso all'Esercito italiano di tagliare le linee di rifornimento della sesta armata austriaca e dell'Armeegruppe Belluno. Le cattive condizioni meteorologiche obbligarono il Comando Supremo a rimandare l'offensiva fino al 24 ottobre. Dall’altra parte del fronte Svetozar Boroević von Bojna (1856-1920), feldmaresciallo a capo delle truppe che controllavano l’area dal Piave al mare, pur essendo preoccupato per le notizie che provenivano dall’interno dell’Impero, riteneva affidabili e capaci di resistenza le truppe dislocate sulla linea del fronte: sebbene i soldati fossero esausti a causa della mancanza di cibo, lo spirito dei Frontkämpfer sembrava buono. In ogni caso, poteva contare su dieci divisioni di riserva dietro la linea del fronte. Queste truppe, tuttavia, a differenza dei soldati schierati sul fronte, risentivano delle notizie provenienti dall'entroterra.
Dal momento che la piena del fiume Piave non sembrava arrestarsi, il 24 ottobre Diaz ordinò alla 4a Armata di attaccare le linee austro-ungariche sul Monte Grappa. Dopo due giorni di duro combattimento, caratterizzato da conquiste marginali, gli austro-ungarici contrattaccarono, dimostrando una buona capacità di resistenza. Conseguentemente, Diaz comandò l'inizio dell'offensiva sul Piave, dove il rapporto di forze era più favorevole: l'obiettivo della 12a, dell'8a e della 10a Armata era quello di creare tre teste di ponte sulla sponda orientale del fiume vicino a Valdobbiadene, Sernaglia e Grave di Papadopoli. Ad eccezione dell'11a divisione di cavalleria Honvéd che si rifiutò di combattere vicino a Sernaglia, le altre truppe austro-ungariche mantennero la loro disciplina e bloccarono il movimento italiano appena oltre il fiume. Solo al di là della Grave di Papadopoli la 10a Armata italiana – composta da due divisioni inglesi e due italiane – fu in grado di creare una piccola ma significativa rottura nelle linee austriache.

La svolta della battaglia arrivò con la decisione presa la sera del 27 ottobre da Enrico Caviglia di sfruttare questa piccola testa di ponte, spostando due divisioni dall'8a alla 10a Armata, in modo da tagliare la comunicazione tra 6a Armata austriaca e l'Isonzo armee di Boroević. Nel frattempo, Boroević tentò di spostare le divisioni di riserva vicino al fronte, ma l'inaffidabilità di queste truppe gli impedì di fermare l’avanzata della 10a Armata dell'esercito italiano: la maggior parte dei soldati ungheresi, cechi, sloveni e croati della riserva rifiutò infatti di obbedire agli ordini. Pertanto, dopo il fallimento del contrattacco del 28 ottobre, la situazione difensiva austriaca peggiorò e altre unità di riserva decisero di abbandonare il fronte, mentre le unità sulla linea del fronte, esauste e a corto di rifornimenti, cominciavano a cedere.
Alla fine, l'alto comando austro-ungarico ordinò una ritirata generale e organizzò una commissione armistiziale, che contattò l'Esercito italiano il 29 ottobre. Nel frattempo l'8a armata italiana sfruttò la testa di ponte creata dalla 10a Armata e avanzò nella direzione di Vittorio Veneto, raggiungendo la città il 30 ottobre. A quel punto l'esercito austro-ungarico era diviso in due ed in ritirata, e il Comando supremo italiano ordinò un attacco frontale anche in altri settori del fronte, per sfruttare il ripiegamento. Nel pomeriggio del 3 novembre le truppe italiane avevano raggiunto Trento e Trieste e alle 15:20, a Villa Giusti, fu firmato l‘armistizio, che sarebbe entrato in vigore ventiquattr'ore dopo, alle 15:00 del 4 novembre 1918.

In conclusione, la battaglia di Vittorio Veneto non può essere descritta come un ritiro spontaneo dell'esercito austriaco, almeno fino al 30 ottobre. Le truppe austro-ungariche schierate lungo la linea del fronte avevano combattuto ferocemente, soprattutto sul Monte Grappa, dove gli italiani contarono 28.000 morti in sei giorni. Inoltre, i generali italiani e austriaci non si aspettavano prima della battaglia un collasso dell'esercito austriaco e la risposta delle truppe di linea asburgiche nei primi giorni di battaglia mostra come la fiducia nella tenuta morale dei soldati di linea fosse generalmente ben riposta, al di là delle questioni di fedeltà etnica nei confronti degli Asburgo.

Ciononostante, l’enfasi esagerata del Bollettino della Vittoria sulla differenza di potenziale dei due eserciti e sulle dimensioni militari della vittoria nasconde altre considerazioni. Le unità di riserva austriache subirono gli effetti della situazione interna nello Stato austriaco e rifiutarono in molti casi di obbedire agli ordini, impedendo un riuscito contrattacco alla Grave di Papadopoli. Questo elemento si rivelò decisivo nel consentire all'8a Armata italiana di raggiungere Vittorio Veneto e dividere in due l'esercito austriaco. Inoltre, l’accanita resistenza delle truppe di linea dell’esercito asburgico era destinata a scemare rapidamente a causa dell’assenza di rifornimenti, dell’alimentazione insufficiente e della mancanza di truppe fresche. Nonostante l’assenza di defezioni o ammutinamenti significativi tra i reparti di prima linea austro-ungarici, la capacità di tenuta di queste truppe era limitata già in partenza.

In conclusione, la battaglia di Vittorio Veneto rappresenta il risultato finale di una guerra di logoramento e risente in misura importante delle tensioni che caratterizzavano l’interno dell’Impero e della rottura del fronte balcanico. L'ordine di battaglia era ben pianificato, ma l’elemento chiave che consentì all'Esercito italiano di trasformare un’avanzata locale in un avanzamento strategico va individuato anche nella riluttanza dei soldati austro-ungarici – in particolare delle divisioni della riserva – a sacrificare la propria vita per una causa che non percepivano più come propria.


Gallery

I soldati italiani della brigata Caserta attraversano i territori riconquistati. Ottobre 1918 [AF MSIGR 2/736]
La sanità segue le truppe impegnate nell’offensiva. Ottobre 1918 [AF MSIGR 2/704]

Biografia

Armando Diaz: il Generale della vittoria

Armando Vittorio Diaz nacque a Napoli il 5 dicembre 1861. Figlio di un ufficiale di marina, fu avviato giovanissimo alla carriera militare, frequentando l’accademia militare di Torino dalla quale uscì con il grado di sottotenente d’artiglieria. Nel 1884 entrò in servizio attivo nel 10° Reggimento di artiglieria e, nel 1890, si unì con il grado di capitano al 1° Reggimento. Nel 1894 si specializzò alla scuola di guerra, iniziando poi a lavorare nella segreteria del generale Alberto Pollio, futuro capo di Stato Maggiore dell’esercito. Allo scoppio della guerra italo-turca venne posto a capo del 93° Reggimento di fanteria, rimanendo ferito lievemente nella battaglia di Zanzur.

Nel maggio del 1915, alla viglia dell’intervento italiano nella Grande guerra, venne nominato maggior generale da Luigi Cadorna con l’incarico di addetto al Comando Supremo del reparto operazioni. Stanco di una carriera fino ad allora passata all’interno degli uffici dello Stato maggiore, nel 1916 Diaz chiese ed ottenne di essere spostato in un reparto combattente, venendo assegnato al comando 49° Divisione (III Armata) con il grado di tenente generale. Nel 1917, mentre era al comando del XXIII corpo d’armata, fu nuovamente ferito ad una spalla.

All’indomani di Caporetto le truppe di Diaz erano inquadrate all’interno della III armata, comandata da Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, che riuscì a sottrarsi all’annientamento, ritirandosi in buon ordine. Tra il 2 e il 3 novembre le forze austro-tedesche, dopo aver sbaragliato le prime linee italiane tra Plezzo e Tolmino, forzarono anche il Tagliamento. Le truppe della III armata ripiegarono sul Piave e sul Monte Grappa, dove Cadorna stava organizzando la linea di resistenza, la cui ossatura era costituita proprio dalle forze del Duca d’Aosta. Il mattino del 9 novembre, mentre il passaggio delle ultime truppe italiane era quasi ultimato, Diaz ricevette la nomina a Capo di stato maggiore dell’esercito, sostituendo l’ormai screditato Cadorna al Comando Supremo. Egli disse in proposito: «Assumo la carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito. Conto sulla fede e sull’abnegazione di tutti», aggiungendo poi, riguardo alle condizioni dell’esercito: «L’arma che sono chiamato a impugnare è spuntata: bisognerà presto rifarla pungente: la rifaremo». 

In questa delicata fase Diaz poteva schierare solo 33 divisioni pronte al combattimento, circa metà di quelle disponibili prima di Caporetto. Per rimpinguare i ranghi si ricorse alla mobilitazione dei diciottenni della classe 1899 e, per il febbraio 1918, altre 25 divisioni erano state ricostituite. Con queste esigue forze riuscì a bloccare l’ultima fase dell’offensiva austro-tedesca nella cosiddetta battaglia d’arresto. La sua lunga esperienza presso lo Stato maggiore aveva fatto acquisire a Diaz una certa dimestichezza nell’organizzazione delle truppe e degli ufficiali suoi subalterni. Dietro la linea del Piave e sotto la guida di Diaz, l’esercito fu così prontamente riorganizzato e riequipaggiato, riuscendo a parare l’ultimo assalto austriaco tra il Grappa e il mare. La cosiddetta battaglia del Solstizio, che nell’ottica dei comandi austro-ungarici doveva assestare il colpo definitivo agli italiani, si concluse in una disfatta per l’imperial-regio esercito. Malgrado il vigore e la violenza dell’attacco, tutte le teste di ponte austriache oltre il Piave furono riconquistate dai contrattacchi italiani, mentre le perdite subite furono talmente gravi da rendere impossibile qualsiasi nuovo slancio offensivo.

Dopo il successo del Solstizio, Diaz iniziò a pianificare una grande offensiva che liquidasse l’ormai agonizzante imperial-regio esercito e scongiurasse il pericolo che l’Italia venisse tagliata fuori dalla vittoria dai continui successi alleati sul fronte occidentale. L’offensiva finale fu scatenata il 24 ottobre: alle 51 divisioni italiane e 7 alleate si opponevano altrettante austriache. Diaz, tuttavia, poteva contare su una netta superiorità nelle artiglierie: 7700 bocche da fuoco italiane contro poco più di 6000 pezzi austro-ungarici. Il piano non prevedeva attacchi frontali, ma un colpo concentrato su un unico punto - Vittorio Veneto - per spezzare in due il fronte nemico. Con una manovra diversiva, Diaz attirò tutti i rinforzi austriaci lungo il Piave, che il nemico credeva essere il punto d’attacco principale, per poi scatenare l’offensiva tra il 28 e 29 ottobre, con teste di ponte isolate che avanzarono rapidamente lungo il centro del fronte, facendo allargare le ali per coprirne l’avanzata. A questo punto la linea tenuta dall’esercito austro-ungarico - già in piena crisi morale e materiale - si spezzò, innescando una reazione a catena ingovernabile che portò interi reparti a ritirarsi, abbandonando le proprie posizioni. Il 30 ottobre l’esercito italiano arrivò a Vittorio Veneto, mentre altre armate passarono il Piave giungendo a Trento il 3 novembre. Il 4 novembre 1918 l’Austria-Ungheria capitolò e per l’occasione Diaz stilò il celebre Bollettino della Vittoria, riprodotto poi in centinaia di caserme, edifici pubblici e monumenti in tutta Italia.

Diaz concluse l’esperienza del Primo conflitto mondiale carico di onori e prestigio, tanto che nel 1921 gli fu conferito il titolo di Duca della Vittoria. Pur non allineandosi al nascente movimento fascista, nel 1922 Diaz sconsigliò una soluzione militare della crisi innescata dalla marcia su Roma, aprendo così la strada al ventennio mussoliniano. Dopo essere entrato nel primo governo Mussolini, su pressione di Vittorio Emanuele III assunse l’incarico di Ministro della Guerra, varando la riforma delle forze armate e accettando la costituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale sottoposta al potere personale di Mussolini. Terminata l’esperienza governativa il 30 aprile del 1924, si ritirò a vita privata. Nello stesso anno venne insignito, insieme al generale Cadorna, del grado di Maresciallo d’Italia. Armando Diaz morì a Roma il 29 febbraio 1928.

L’intervento di Diaz all’indomani di Caporetto fu indubbiamente importante. Al momento della sua nomina a capo di stato maggiore egli aveva un’esperienza diretta della guerra di trincea sul Carso e di conseguenza un’idea molto più realistica e moderna della guerra in corso. Era inoltre 11 anni più giovane di Cadorna il quale, già poco flessibile di suo, aveva sì compreso le dimensioni del conflitto ma non le sue complessità socio-politiche quali: il mantenimento di buoni rapporti con la classe politica e l’avere un’idea meno astratta dei soldati di truppa e del terribile logorio fisico e psicologico al quale erano sottoposti. Ai vertici dell’esercito, la riforma di Diaz si adoperò nel decentrare molte funzioni ai sottoposti, riservandosi un ruolo di controllo ed appoggiandosi ai due sotto-capi di Stato Maggiore che lo affiancavano, i generali Gaetano Giardino e, soprattutto, Pietro Badoglio. Ne uscì un comando supremo ben più efficiente rispetto alla gestione di Cadorna. Come afferma Giorgio Rochat, lo stile di comando di Diaz lo avvicinava molto di più ad un generale come Eisenhower: non era un accentratore, sapeva organizzare bene il suo comando, dare fiducia ai suoi collaboratori e intratteneva buoni rapporti con i politici.

Fu, inoltre, potenziato il servizio informazioni che divenne un elemento decisivo nella pianificazione delle operazioni, mentre l’Ufficio Operazioni assicurò il controllo effettivo di quanto accadeva al fronte, grazie anche a una rete di ufficiali di collegamento. Diaz e Badoglio cercarono, con discreti risultati, di migliorare l’addestramento della fanteria e di potenziarne l’armamento. Sotto Diaz furono sperimentati i primi moschetti automatici, furono distribuite maschere antigas inglesi, più efficienti di quelle italiane, e fu potenziata l’aviazione fino a conseguire il dominio dell’aria. Fu inoltre rafforzata l’artiglieria migliorando l’addestramento e le tecniche d’impiego. Si procedette anche alla riorganizzazione ed al potenziamento degli Arditi.

L’elemento che qualificò principalmente il comando di Diaz fu lo sforzo nel migliorare le condizioni di vita dei soldati: la giustizia militare rimase severa ma furono abbandonate le pratiche più rigide come la decimazione. Furono altresì migliorati il vitto - portato a 3.500 calorie - e l’allestimento di postazioni più confortevoli e meno esposte. Al contempo, i turni in prima linea divennero più brevi con avvicendamenti frequenti, fu migliorata la paga e le licenze furono aumentate per frequenza e durata. Fu inoltre creata una polizza gratuita d’assicurazione di 500 lire per i soldati e di 1.000 per i graduati. Importante fu la disposizione per la quale i feriti e i malati dimessi dagli ospedali militari venissero fatti rientrare ai reparti d’origine, anziché essere destinati dove capitava, aumentando così l’affiatamento tra i soldati. Alle unità che scendevano dal fronte furono assicurati turni di vero riposo, alloggiamenti più confortevoli e possibilità di svago con l’istituzione delle "case del soldato", l’organizzazione di spettacoli e una rete di “case chiuse”.

Memore del vero o presunto tracollo morale di Caporetto, Diaz curò il morale delle truppe facendo leva sui giovani intellettuali in forza nell’esercito, i quali furono concentrati nel Servizio P (Propaganda), il cui scopo era curare il morale, intrattenere le armate impegnate nella difesa del Piave e i soldati nelle retrovie. Disegnatori, illustratori e pittori furono incaricati di creare vignette per i giornali delle armate, manifesti propagandistici e cartoline allo scopo di rendere più efficace e comunicativo l’immaginario della guerra e delle vicende al fronte. Il ritorno degli intellettuali diede vita ad una capillare campagna di promozione dello spirito patriottico, utilizzando la psicologia, la pedagogia di massa e la retorica. Tra i compiti del servizio P vi era altresì un maggior “filtraggio” delle notizie tramite la riorganizzazione della censura. Le notizie veicolate dai cosiddetti “giornali di trincea”, destinati alle truppe, erano più semplici e meglio comprensibili ai soldati, mentre il messaggio inviato e filtrato veniva ridotto alle tematiche di difesa della patria, della terra e della propria famiglia. Per facilitare l’efficacia dei contenuti molto spesso questi giornali erano gestiti dai soldati stessi, che li pubblicavano a livello di reggimento o brigata.

Questi elementi positivi furono indubbiamente merito della gestione di Diaz, tuttavia, ad oggi la sua immagine - al pari di quella di Cadorna - va rivalutata con uno sguardo più obbiettivo, tralasciando le ovvie celebrazioni dell’epoca. Va infatti notato come il contributo di Diaz su piano strategico e militare fu molto modesto. L’importante decisione di ripiegare sul Piave, evitando inutili difese ad oltranza, fu presa dal generale Cadorna. Sempre Cadorna, con buona lungimiranza, fece approntare importanti strutture difensive e logistiche sul monte Grappa (punto strategico della difesa italiana) già ai tempi della Strafexpedition (una camionabile dalla pianura alla vetta, una strada campestre, due teleferiche e un impianto di sollevamento dell’acqua). Va altresì rilevato come la netta inferiorità numerica dell’esercito di Diaz durante la battaglia d’arresto, fosse ben compensata da un accorciamento della linea del fronte di 170 km e dall’afflusso sul fronte italiano di sei divisioni francesi e cinque britanniche con artiglieria e supporti (in totale 130.000 francesi e 110.000 britannici), rinforzi che in passato erano sempre stati negati a Cadorna. Sebbene queste truppe non entrarono in azione durante la battaglia, esse funsero da riserva strategica permettendo a Diaz di concentrare tutte le proprie truppe in prima linea. Va inoltre evidenziato come la migliore efficienza del comando supremo italiano fosse legata all’evoluzione della guerra in atto, grazie ad una curva di apprendimento positiva che, generalmente, portava gli ufficiali ad apprendere dai propri errori. Tutti gli alti comandi del 1917-1918 erano più efficaci di quelli di due anni prima, poiché erano gestiti da ufficiali più giovani che avevano una conoscenza diretta della guerra di trincea e ne conoscevano le complessità e le esigenze. Non faceva eccezione l’esercito italiano, nel quale il generale Cadorna, con suoi continui siluramenti, ebbe l’inconsapevole merito di far emergere ufficiali giovani e temprati dal fronte. 

Ciononostante, è assodato come Diaz seppe cogliere, meglio del suo predecessore, le complessità del conflitto in atto le cui dimensioni e intensità non potevano più essere gestite in stile autoritario e napoleonico dall’interno di uno stato maggiore formato da generalissimi. Una guerra moderna che varcava la dimensione unicamente militari e strategiche per intersecarsi con la politica, la propaganda e la pedagogia di massa: elementi che Diaz riuscì a gestire sapientemente e che si dimostrarono importanti per cogliere la vittoria finale.


Link

https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/vittorio_veneto_battle_of
https://www.raicultura.it/webdoc/grande-guerra/vittorio-veneto/index.html#welcome
https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2021/10/La-battaglia-di-Vittorio-Veneto-e-la-fine-della-guerra-28ad4835-04ac-49ea-9120-e6ef252cb179.html


Letture

Piero Del Negro, Vittorio Veneto e l'armistizio sul fronte italiano, in: Stéphane Audoin-Rouzeau,  Jean-Jacques  Becker (a cura di), La Prima guerra mondiale, vol. 2, edizione italiana a cura di Antonio Gibelli, Einaudi, Torino 2007, pp. 339-350
Mondini, Marco, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare. 1914-18, Bologna, Il Mulino, 2014
Nicola Labanca, Oswald Überegger, La guerra italo-austriaca (1915-18), Bologna, Il Mulino, 2014
Paolo Pozzato, Vittorio Veneto. Luci e ombre di una vittoria, Gaspari, 2019
Mario Isnenghi, Paolo Pozzato, I Vinti di Vittorio Veneto, il Mulino, 2018