I prigionieri di guerra italiani nel Primo conflitto mondiale
di Alessandro Chebat
"Č l’orrore della prigionia che occorre poter ispirare nei soldati".
Gen. Morrone – Ministro della guerra
Fino al XVIII secolo il destino dei prigionieri catturati era alla mercé dei vincitori, i quali potevano disporre di essi come meglio credevano: ucciderli, torturarli, renderli schiavi o liberarli dietro riscatto o per solidarietà di casta. Con l’avvento del secolo dei lumi si diffuse l’idea che i prigionieri di guerra dovessero essere custoditi e poi restituiti. Tuttavia fu il XIX secolo – con l’ampliamento degli eserciti e l’inasprimento dei conflitti – a stabilire quella che sarà la prassi nella gestione dei prigionieri di guerra. Tra il 1864 e il 1907 una serie di conferenze tenutesi a Ginevra e l’Aia stabilirono delle convenzioni riconosciute a livello internazionale. Esse stabilivano come i prigionieri dovessero avere certezza di rimanere in vita, vitto-alloggio adeguati, assistenza sanitaria e religiosa e corrispondenza regolare. L’esercito vincitore aveva il diritto di detenere i prigionieri in campi di sicurezza, imponendo il lavoro coatto alla truppa. Gli ufficiali ne erano invece esonerati e detenuti in campi separati. In generale si trattava di norme elastiche, il cui unico elemento di controllo era la supervisione da parte di uno stato neutrale o di un organismo internazionalmente riconosciuto come la Croce Rossa.
Allo scoppio della Grande guerra vi fu da subito un afflusso di prigionieri superiore al preventivato. Il sistema detentivo immaginato nell’anteguerra entrò in crisi: migliaia di prigionieri dovevano essere custoditi, trasferiti e nutriti per anni, all'interno di grandi campi decentrati all’interno del territorio nazionale, circondati da filo spinato, con un numeroso corpo di guardie. Tutti gli stati coinvolti cercarono, nel limite del possibile, di rispettare le convenzioni internazionali, tuttavia Germania e Austria-Ungheria – dove il blocco navale provocava continue restrizioni nell’alimentazione – trovarono crescenti difficoltà nel garantire il vitto ai prigionieri. A titolo d’esempio, dopo il primo anno di guerra i circa 300 mila francesi in mano tedesca si ritrovarono con razioni insufficienti, costringendo il governo francese a fare appello alle famiglie dei prigionieri e ad associazioni umanitarie affinché inviassero pacchi alimentari e vestiario. Vista l’insufficienza degli invii, nel 1916 fu raggiunto un accordo con le autorità tedesche per l’invio, dalla Francia attraverso i paesi neutrali, di derrate alimentari su treni merci. Una soluzione simile fu raggiunta anche per i prigionieri inglesi. In alcuni casi si giunse alla situazione paradossale nella quale i prigionieri erano meglio vestiti e nutriti dei loro carcerieri. Prendendo in considerazione i circa 600 mila prigionieri francesi in mano tedesca, essi ricevettero 75 milioni di pacchi da famiglie e associazioni, mentre il governo provvide con un milione di quintali di pane e 625 mila pacchi vestiario. La mortalità si ridusse a meno di 19 mila casi, compresi i deceduti per ferite riportate prima della resa.
Diversa fu la situazione per i prigionieri italiani. Fino ai primi anni ’90 del XX secolo i dati ufficiali sulle perdite italiane nella Grande Guerra denunciavano circa 670 mila caduti e 600 mila prigionieri. Tuttavia, scorporando le statistiche sui caduti emergeva come 500 mila fossero morti per ferita o malattia, altri 50 mila dopo l’armistizio per causa di guerra e circa 50 mila in prigionia: la somma non arrivava ai 670 mila denunciati. Nel 1993 un volume di Giovanna Procacci svelò come i morti in prigionia fossero in realtà oltre 100 mila. Di questi solo 550 erano ufficiali. Tuttavia, la Commissione parlamentare di inchiesta sulla violazione del diritto delle genti commesse dal nemico, già nel 1920 riportava questa cifra, che equivaleva ad un quarto dei morti in combattimento (402 mila) e a due terzi di quelli per malattia (169 mila). È evidente come la memoria della prigionia nella guerra italiana fosse stata oggetto, per una serie di ragioni, di una pluridecennale opera di rimozione.
Spesso, attorno al prigioniero di guerra era diffuso il sospetto che dietro la resa vi fosse scarsa volontà di combattere, vigliaccheria o una diserzione mascherata. Nella stessa Francia il rientro dalla prigionia fu caratterizzato da inchieste e provvedimenti disciplinari: solo dieci anni dopo ai prigionieri furono riconosciuti gli stessi diritti degli ex combattenti. In Italia la pressione morale, politica e sociale nei confronti di coloro che cadevano prigionieri fu ancora più forte e traeva origine dal pregiudizio sociale e culturale che separava le classi dirigenti (dagli ufficiali ai politici) dalla truppa (operai e contadini). È indicativo come nel marzo del 1916 una circolare del Comando supremo lamentasse come: “il numero di nostri prigionieri presi […] non risulta proporzionato all’importanza degli scontri e all’entità delle truppe impegnatevi”. Tale opinione era altresì rafforzata dalle notizie che tra le fine del '15 e l'inizio del '16 sopraggiungevano dai delegati svizzeri nei campi di prigionia, circa le buone condizioni di vita dei prigionieri di guerra italiani. Notizie confermate dalla pubblicazione sulla stampa di alcune lettere di prigionieri impiegati in lavori agricoli. Va sottolineato come tali situazioni riguardassero quasi sempre ufficiali e in generale solo una piccola parte della massa dei prigionieri, ciononostante lo stato maggiore convenne sull'inopportunità di pubblicare notizie troppo confortanti circa il trattamento dei prigionieri.
Fu proprio nella prima metà del 1916 in occasione della Strafexpedition - nel corso della quale per la prima volta fu catturato un elevato numero di militari italiani - che l'identificazione del prigioniero con il disertore fu interiorizzata ai vertici politici e militari. In una nota alla presidenza del consiglio, il generale Porro afferma apertamente che al fine di evitare le diserzioni occorreva che la stampa desse “la più ampia e colorita diffusione alle notizie circa maltrattamenti inflitti ai prigionieri in Austria-Ungheria ed al cattivo nutrimento loro concesso”.
Fu così che la propaganda italiana iniziò a dipingere i prigionieri di guerra come “sventurati e svergognati” che avevano “peccato contro la patria”. Dopo Caporetto e l’infelice telegramma di Cadorna - nel quale addebitava la disfatta alla “mancata resistenza” di alcuni reparti “vilmente arresisi” - tale atteggiamento si inasprì e il carattere infamante e disonorante dello status di prigioniero fu ulteriormente ribadito. Tuttavia, tra il ’17 e il ’18, alla condanna di chi si dava prigioniero si aggiunse un’azione propagandistica volta a “prevenire” la diserzione e ad aizzare l’odio verso il nemico. Tra le truppe furono diffusi opuscoli dai titoli ammonitori: La crudeltà austriaca, Gli orrori della prigionia austriaca, Calvario d’oltr’Alpi, Dalla tomba dei vivi, ecc. In essi le atroci condizioni di vita dei prigionieri di guerra erano descritte in tutti i loro dettagli, con gli austriaci dipinti come unici responsabili delle sofferenze e delle privazioni illustrate. Anche in questo caso il messaggio era chiaro: arrendersi era un atto disonorevole che peggiorava le condizioni di vita e le speranze di sopravvivenza del soldato.
Questa demonizzazione dei “carcerieri” nemici era d’altronde diffusa in tutte le potenze in campo, tuttavia, va sottolineato il fatto che se i prigionieri francesi e britannici riuscirono a sopravvivere fu in larga parte dovuto all’azione dei loro governi che permisero l’invio dei viveri e in seguito se ne occuparono direttamente, rendendo il tasso di mortalità tra i propri cittadini nettamente più basso rispetto ai prigionieri italiani. Contrariamente, la classe dirigente italiana prese la cinica e crudele scelta di lasciar morire oltre 100 mila prigionieri nella convinzione che ciò avrebbe scoraggiato rese e diserzioni tra la truppa.
Come in altre nazioni europee, all’inizio del conflitto anche in Italia il sostentamento dei prigionieri fu lasciato all’iniziativa della Croce Rossa e delle famiglie, le cui azioni ben presto si rivelarono insufficienti e soggette a ritardi a causa del collasso del sistema postale. Va altresì sottolineato come la situazione per i prigionieri italiani fosse ancor più grave in quanto il tenore di vita delle loro famiglie era in genere nettamente inferiore rispetto a quelle francesi e inglesi (dall’Italia furono inviati 18 milioni di pacchi contro i 75 dalla Francia). Con il protrarsi del conflitto – in particolare nell’ultimo biennio di guerra – la drammatica crisi alimentare all’interno dell’impero austro-ungarico provocò la costante riduzione delle razioni distribuite ai prigionieri, che scesero sotto le 1000 calorie giornaliere a fronte di un apporto minimo di 3300. Le condizioni di prigionia infatti variavano da caso a caso: tollerabile per coloro che erano impiegati in lavori agricoli e potevano integrare il magro rancio concesso, insostenibile per quanti erano impiegati in fabbrica, in miniera o nelle compagnie di lavoro lontane dai campi. Tuttavia, con il sopraggiungere dell'inverno, la fame e il freddo divennero i principali nemici dei prigionieri italiani, i quali iniziarono a morire a migliaia. Le principali cause di morte erano la polmonite, la tubercolosi e l’edema da fame: in un solo reparto dell’ospedale di Mauthausen, tra novembre ’17 e aprile ’18, si registrarono oltre 500 decessi per enterite. A Sigmundsherberg morirono in 491 nel solo 1917 e nei primi nove mesi del 1918 i decessi furono 1779. Condizioni di prigionia peggiori toccarono ai soldati catturati in seguito alla rotta di Caporetto. Dopo essere giunti ai campi di detenzione stremati da un lungo trasferimento caratterizzato da fame, fatiche e atteggiamento ostile da parte dei carcerieri, essi dovettero affrontare un duro inverno privi di vettovagliamenti e abiti adeguati. Testimonianze riferiscono come spesso molti prigionieri, attanagliati dalla fame, tendevano a vendere i propri abiti più pesanti per un tozzo di pane, esponendosi però alle intemperie. In questa fase si toccarono i livelli di mortalità più alti: a Mauthausen in soli due mesi morirono un decimo dei prigionieri presenti, mentre a Milowitz alcune testimonianze riferiscono 10 mila morti in quattro mesi sui 14 mila prigionieri presenti.
L’altissimo tasso di mortalità nell’ultimo biennio di guerra fu dovuto, non solo alla notevole crescita dei prigionieri dopo Caporetto (280 mila catturati) e all’impossibilità di austriaci e tedeschi di provvedervi, ma principalmente all’atteggiamento delle autorità italiane. Dopo la disfatta del Tolmino il Comando Supremo - d’accordo con le autorità politiche - proibì l’invio di soccorsi collettivi tramite vagoni ferroviari - ribadendo che l’aiuto doveva rimanere singolo - e al contempo vietò alla Croce Rossa il ricorso a sottoscrizioni pubbliche per finanziare gli aiuti. Gli ufficiali catturati poterono, invece, contare sempre su adeguati rifornimenti. A sua volta il governo italiano - contrariamente a quanto avveniva nelle nazioni alleate - non adottò alcuna iniziativa diretta a soccorrere i connazionali in prigionia, additati come “imboscati d’oltralpe”, né tentò in alcun modo di rendere più rapida la spedizione dei pacchi verso l’impero austro-ungarico. Sovente i pacchi restavano per troppo tempo in attesa nei magazzini, arrivando ai prigionieri quando oramai il loro contenuto non era più commestibile. Lo stesso ministro degli esteri Sonnino affermò come tra i prigionieri ci fossero degli “immeritevoli di qualsiasi aiuto e che più che prigionieri sarebbero da trattarsi come disertori”. Da notare che, se l’invio di aiuti verso l’Austria era difficoltoso, quello verso la Germania era di fatto impossibile, in quanto fu fatto divieto di inviare pacchi verso questo paese in quanto non esistevano accordi in merito.
Già nei mesi precedenti a Caporetto la posizione dei comandi militari nei confronti dei prigionieri si era notevolmente inasprita. Nel settembre 1917 fu chiusa la frontiera Svizzera, l’unica dalla quale potevano transitare gli aiuti. In seguito, dopo i terribili costi umani della X e XI battaglia dell’Isonzo - dove si annoverarono ben 30 mila prigionieri italiani sui quali pesava il sospetto di diserzione - le autorità militari decisero di trattenere la posta presso gli uffici censura, privandone sia i familiari che i prigionieri, e decidendo poi di distruggere tutta quella rimasta giacente. Ben 17 tonnellate di posta sarebbero andati al macero nell’aprile del 1918. Fu persino fatta circolare una “leggenda” secondo la quale i pacchi viveri destinati ai prigionieri venissero in realtà depredati dai soldati austriaci una volta giunti a destinazione. Tali iniziative, unite alle orazioni pubbliche tenute da prigionieri fuggiti dai campi, avevano uno scopo ben preciso: scoraggiare le diserzioni.
È indicativo come la stessa commissione parlamentare di inchiesta non adombrasse alcuna responsabilità governativa nella tragica sorte dei prigionieri. Essa si limitò a commentare come i 3/5 dei soldati di truppa sarebbero riusciti a sopravvivere se avessero ottenuto lo stesso trattamento degli ufficiali, i quali ricevevano regolarmente pacchi di viveri e denaro dalle famiglie. Le conclusioni tratte postulavano come le drammatiche condizioni dei prigionieri fossero dovute alla volontà dei nemici di vendicarsi del tradimento italiano e all'intento di far sorgere nelle famiglie del malcontento nei confronti del governo, incrinando il fronte interno.
In realtà, va evidenziato come tedeschi e austriaci non perseguissero una politica punitiva nei confronti dei prigionieri. Pur applicando pesanti punizioni corporali - ammesse tra i loro stessi soldati - e una disciplina ferrea, essi non commisero particolari efferatezze nei loro confronti. Tuttavia, non volevano né potevano rinunciare al serbatoio di forza lavoro rappresentato dai prigionieri, i quali furono impiegati in miniera, nei lavori di manovalanza più pesanti e nei lavori agricoli, senza però poter contare su un’adeguata alimentazione. Una serie di contingenze di guerra degli imperi centrali che unite ad una spietata volontà punitiva da parte italiana condannarono a morte oltre 100 mila prigionieri. L’obiettivo per cui era “l’orrore della prigionia che occorre poter ispirare nei soldati”, come affermò il ministro della guerra, generale Morrone, fu perseguito fino alle più estreme conseguenze.
Biografia
Ernest Hemingway
Ernest Hemingway nacque nell’Illinois da Clarence Edmonds Hemingway, medico e appassionato di caccia, e da Grace Hall, insegnante di musica e successivamente pittrice. Dopo essersi diplomato, non mostrò interesse a proseguire gli studi e ad iniziare una carriera universitaria. Si entusiasmò invece per lo sport, praticando diverse discipline, tra cui corsa, boxe e nuoto, ma soprattutto per la scrittura.
Quando seppe di avere buone possibilità di diventare cronista per il Kansas City Star, un importante quotidiano americano, lasciò la famiglia e partì alla volta della sua nuova destinazione. Era il 1917. Gli Stati Uniti, rimasti fino a quel momento neutrali al Primo Conflitto Mondiale, ormai scoppiato da tempo, in aprile dichiararono guerra alla Germania, ma Ernest continuò a lavorare: il suo mestiere di reporter a Kansas City lo fece affacciare alla vita e lo condusse ad affinare il proprio stile.
Attirato dalle ostilità, nel 1918 decise di raggiungere l’Europa vestendo l’uniforme da sottotenente di complemento, nonostante un problema ad un occhio. Entrò a far parte della Croce Rossa e, passando attraverso la Francia, giunse a Milano, dove, appena arrivato, dovette assistere con orrore alle conseguenze devastanti provocate dall’esplosione di una fabbrica di munizioni: Ernest ed i compagni furono costretti a recuperare corpi ridotti in brandelli. Dopo tre giorni, si spostò a Schio: anche in montagna il conflitto mieteva vittime ed il giovane Hemingway aveva il compito di trasportare in ambulanza i feriti da evacuare. In terra veneta conobbe John Dos Passos, originario di Chicago e destinato anch’egli a diventare un celebre romanziere americano.
Durante l’ultimo anno di guerra, gli Italiani si erano trincerati lungo la sponda occidentale del Piave. Qui i volontari dovevano rifornire i posti di ristoro della Croce Rossa nelle cittadine che si trovavano dietro le linee: Ernest, che desiderava essere sempre nel vivo dell’azione, si fece mandare a Fossalta, uno dei paesi lungo il fiume più segnati dalle manovre belliche. Una notte, mentre si recava a portare cioccolato e sigarette agli uomini in trincea, un colpo di mortaio austriaco cadde tra i soldati italiani ed egli, nel disperato tentativo di trasportare sulle proprie spalle un uomo gravemente ferito, si rese bersaglio di una mitragliatrice nemica, che gli dilaniò una gamba. Dopo essere stato operato in un posto di medicazione a Fornaci, dove gli furono estratte solo alcune tra tutte le schegge che erano rimaste conficcate nell’arto, fu condotto all’ospedale della Croce Rossa Americana, in via Manzoni a Milano. La guerra per Hemingway poteva dirsi conclusa. Durante la sua degenza si innamorò di un’infermiera, Agnes Hannah von Kurowsky, una ragazza proveniente da Washington e più grande di lui, che lo ricambiò con un affetto probabilmente frenato dalla differenza d’età.
L’esperienza bellica in Italia, l’amore per una crocerossina, la storia e la bellezza del territorio europeo definirono profondamente Ernest come uomo e come scrittore.
Una volta tornato ad Oak Park si sentì travolgere dall’insoddisfazione, nonostante fosse considerato un eroe: continuava ad indossare la mantella italiana, beveva vino, cantava le canzoni del Piave e non cercava lavoro. In seguito a queste sue cattive abitudini fu cacciato di casa dalla madre.
Si stabilì a Chicago, dove iniziò a scrivere articoli per il supplemento del Toronto Star e cercò invano di vendere i suoi racconti. Qui, nell’autunno del 1920, conobbe Elizabeth Hadley Richardson, che sarebbe diventata la sua prima moglie. I due si trasferirono a Parigi, in un periodo in cui Hemingway praticava di frequente il pugilato, al fine di racimolare qualche soldo. Dopo essersi recato in Spagna come inviato speciale insieme alla sua sposa, rimase particolarmente colpito dalle corride e dall’atmosfera festosa ed affascinante del luogo. Hadley, incinta, fece ritorno col marito in America in vista della nascita del figlio.
Ernest era ormai reporter e scrittore in ascesa e, come tale, tornò a risiedere con la famiglia a Parigi: era il gennaio del 1924. Nel 1925 cominciò ad essere notato per il suo stile crudo e oggettivo e le sue opere furono richieste e pubblicate dall’editore Scribner’s. Giunse nel frattempo al capolinea il matrimonio con la prima moglie.
Pauline Pfeifer, ex redattrice di moda per Vogue, divenne la seconda signora Hemingway. Rimasta incinta, i due rientrarono in America, per i cui spazi immensi Hemingway aveva iniziato a sentire grande nostalgia: a Key West incontrò la passione per il mare e per la pesca, che si unirono a quella per la caccia. Nel 1928 nacque il suo secondo figlio. Provò un senso di profonda vergogna quando il padre si sparò: egli non concepiva il suicidio, poiché violava il suo codice di coraggio.
Intanto uscì ed ebbe enorme successo uno dei suoi più famosi romanzi, Addio alle armi, a cui se ne aggiungeranno tanti altri, quasi tutti, eccetto uno, di ambientazione non americana. Dopo aver avuto il terzo figlio maschio, nell’autunno del 1932 Ernest, insieme alla moglie Pauline, partì alla volta dell’Africa, dove prese parte ad un avventuroso safari.
Nel luglio del 1936 scoppiò in Spagna la guerra civile: il direttore generale della North American Newspaper Alliance propose ad Hemingway di andarvi in qualità di inviato di guerra, ed egli accettò.
In questo periodo conobbe Martha Gellhorn, colta signorina di St. Louis che sarebbe poi diventata la sua terza moglie.
Tornato dalla Spagna, organizzò in un romanzo le esperienze spagnole e, dopo quattro anni, convolò a nozze con Martha. La casa di Key West sarebbe d’ora in poi appartenuta a Pauline; la nuova abitazione di Ernest divenne Finca Vigía, nei pressi della cittadina di San Francisco de Paula, a Cuba. Alla fine del 1940 fu pubblicato Per chi suona la campana, che ebbe un successo strepitoso.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra durante il Secondo Conflitto Mondiale, Hemingway ottenne che la propria imbarcazione, la Pilar, diventasse nave-civetta, in servizio di pattugliamento contro sommergibili nazisti al largo delle coste cubane e dotata di un equipaggiamento di uomini ai suoi comandi. La cosiddetta “Banda dell’Uncino” fu però sciolta per ordine di Washington ed il controspionaggio ai Caraibi fu affidato all’FBI. Egli partì allora per Londra in veste di corrispondente di guerra, dopo aver firmato un contratto con la rivista Collier’s. Vittima di un incidente automobilistico piuttosto grave, non venne accudito dalla moglie, che spesso gli rimproverava di essere un accanito bevitore: cominciò così a fare la corte a Mary Welsh, attraente giornalista del Minnesota che lavorava per il Daily Express e che aveva conosciuto in Inghilterra. Costei divenne poi la quarta ed ultima signora Hemingway. Insieme andarono a Venezia e a Cortina, in un periodo in cui iniziò a prendere vita un altro suo importantissimo romanzo, Di là dal fiume e tra gli alberi, dopo il quale scrisse, all’inizio degli anni Cinquanta, anche Il vecchio e il mare, che gli avrebbe fatto vincere il premio Pulitzer.
Viaggiò in Africa ed in Europa, e nel 1954 ricevette il premio Nobel per la letteratura. Era ormai malato: aveva pressione sanguigna e colesterolo molto alti, il fegato che funzionava male e l’aorta infiammata. Invecchiato e consumato, cominciò a dare chiari segni di squilibrio mentale e tentò più volte di suicidarsi. Dimesso dopo alcuni ricoveri, fece ritorno nella villa che aveva comprato a Ketchum insieme a Mary.
Domenica 2 luglio 1961, alzatosi presto, riuscì a prelevare un fucile a canna doppia dal ripostiglio in cui si trovavano le armi, e si sparò in fronte.
Bibliografia
Burgess Anthony, L’importanza di chiamarsi Hemingway, Roma, Edizioni Minimum fax, 2008
Pivano Fernanda, Hemingway, Milano, Bompiani, 2001
Link
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/prisoners_of_war_germany
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/prisoners_of_war_italy
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/prisoners_of_war_austria-hungary
https://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/prisoners_of_war_belgium_and_france
https://www.iwm.org.uk/history/voices-of-the-first-world-war-prisoners-of-war
Letture
G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra: con una raccolta di lettere inedite, Bollati Boringhieri, Torino, 2000
L. Gorgolini, I prigionieri di guerra in: N. Labanca, Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2016
G. Corni, E. Fimiani, Dizionario della Grande Guerra: cronologia, Stati, personaggi, eventi, eserciti, simboli, culture, eredità, L'Aquila, Textus Edizioni, 2014
M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande guerra. 1914-1918, Bologna, Il Mulino, 2015
A. Gibelli, La grande guerra degli italiani:1915-1918, Milano, Rizzoli, 2007
A. Gibelli, L'officina della guerra: la Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 2007
H. Jones, Violence against Prisoners of War in the First World War. Britain, France and Germany, 1914-1920, Cambrdige, Cambridge University Press, 2011